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Poesie per l’Immacolata Concezione

L’8 dicembre è il giorno dell’Immacolata Concezione. Festa mariana per eccellenza che celebra il mistero di Maria: unica donna concepita in assenza di peccato, figura umana in grado di accogliere il divino. Una figura plasmata dall’umiltà, dalla povertà, dalla santità vissuta negli ambienti di ogni giorno.

Ella «si sente piccola dentro», e proprio «questa piccolezza, questa umiltà attira lo sguardo di Dio», ha detto Papa Francesco nella sua omelia in San Pietro. 

Il dogma dell’Immacolata Concezione della Vergine Maria è storicamente legato alle apparizioni mariane. Tra le più celebri, quelle di Guadalupe (Messico, 1531), Lourdes (Francia, 1858) e Fatima (Portogallo, 1917). 

Se a ciò si aggiunge che l’archetipo femminile di Maria si ricollega alla grandezza della maternità umana quale custode del soffio generativo che pervade il Creato, possiamo ben comprendere come la devozione mariana costituisca una presenza costante nell’arte e nella poesia. Un simbolo universale che si avvale di molteplici apporti culturali e che ha nutrito l’humus meditativo di poeti ed artisti.

Per illustrare questa “tavolozza di colori”, questa varietà semantica che interpreta il sentimento mariano alla luce di un fare poetico caratterizzato da sfumature diverse, abbiamo scelto quattro poesie: tre componimenti appartenenti ad autori storicizzati ed un’opera di anonimo (un’opera che i nostri lettori, forse, non si aspetteranno…).

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La prima poesia è di Giuseppe Jovine, una delle voci liriche più alte del secondo ‘900. Poeta originario del Molise, una regione oppressa da dolorose vicende storiche, nell’opera letteraria di Jovine si avverte un anelito al riscatto sociale che si risolve in afflato religioso. La poesia qui presentata, “Nostra Madonna di Borrana”, è dedicata alla Madonna protettrice del paese di Castelmauro, borgo natio del poeta.

NOSTRA MADONNA DI BORRANA
(Il canto dell’emigrante)

di Giuseppe Jovine

Madonna, Tu ritorni al nostro villaggio dal convento che veglia i nostri
morti, quando le quaglie volano tra gli orzi,
e tutti tornano a Borrana.
Tornano i vivi e tornano i morti, e i vivi e i morti ti fanno da scorta
tra suoni di trombe e luci di bengala.
Ecco nostra Madonna di Borrana torniamo alla poesia della capanna,
dopo l’orgia dei folli grattacieli, delle cupole pari alle colline
e il suon delle sirene scorderemo,
ci sveglieremo all’alba al suon delle campane, ogni morte e ogni nascita
udremo salutare da un rintocco,
qui sarà dolce vivere e morire.
Sulle montagne e nei boschi d’abete il legno prenderemo per le bare,
e nelle valli il vino per la messa,
porteremo il grano nei sepolcri,
il farro, l’uva, il miele in processione
e dinanzi all’altare Madonna
ascolterai la voce di coloro che si portano dentro pel mondo il tuo paese.
Oggi la nostra patria è questa valle,
all’ombra dell’antico campanile.
Qui resteremo Madonna appagati
lucideremo il rame sulle soglie con la rena gialla ed il sambuco,
l’appenderemo alle pareti per chiamare il sole nelle stanze.
E quando sarà venuta l’ora nostra,
se udienza ci darai e perdonanza
Madonna, col Tuo nome sulle labbra
e negli occhi il colore azzurrino del Tuo manto
al Tuo soglio verremo col nostro corpo pieno di cicatrici e lividure
ma Ti rendiamo l’anima pulita
come un’acqua bianca di sorgiva.

Giuseppe Jovine (1922-1998) mantenne sempre un forte legame con la sua Terra di Molise. Tra le sue opere più importanti, vanno ricordati i volumi di poesie in dialetto molisano “Lu Pavone” (1970) e “Chi sa se passa u’Patraterne” (1992) e l’antologia di versi in lingua “Tra il Biferno e la Moscova” (1975). A cura del figlio Carlo Jovine, sono stati pubblicati postumi il volume di poesie “Viaggio d’inverno” (1999) e il volume di racconti “Gente alla Balduina” (2005).

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La seconda poesia è intimamente connessa alla musica. Si tratta infatti di un testo musicale legato all’interpretazione di un grande cantautore. «Fabrizio De André – scrive un suo appassionato esegeta – era un segreto, un sussurro, un messaggio in bottiglia per pochi eletti; che in breve diventarono decine di migliaia e poi anche di più, ma senza richiami mediatici, senza gli strilli dei concerti, solo con il tam tam antico e ineffabile del passaparola». 

AVE MARIA

di Fabrizio De André

E te ne vai, Maria, fra l’altra gente 
che si raccoglie intorno al Tuo passare,
siepe di sguardi che non fanno male,
nella stagione di essere madre.
Sai che fra un’ora forse piangerai
poi la Tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto, 
nella stagione che illumina il viso. 
Ave Maria, adesso che sei donna, 
ave alle donne come Te, Maria, 
femmine un giorno per un nuovo amore, 
povero o ricco, umile o Messia. 
Femmine un giorno e poi madri per sempre, 
nella stagione che stagioni non sente.

Fabrizio De André (1940-1999). Ecco una breve nota biografica scritta di suo pugno: «Perché scrivo? Per paura. Per paura che si perda il ricordo della vita delle persone di cui scrivo. Per paura che si perda il ricordo di me. O anche solo per essere protetto da una storia, per scivolare in una storia e non essere più riconoscibile, controllabile, ricattabile».

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E adesso cambiamo totalmente genere e atmosfera. Con Carlo Alberto Salustri, universalmente noto col nome di “Trilussa”. «La dialettalità – diceva Pirandello – è vera creazione di forma». La provincia dialettale è una metafora dell’universo, un mezzo di mediazione col mondo, e il poeta dialettale effettua una fusione espressiva tra modi popolari e modi colti. 

ALLA MADONNA

di Carlo Alberto Salustri (Trilussa)

Qann’ero ragazzino,
mamma mia me diceva:
Ricordati, fijolo,
quanno te senti veramente solo
tu prova a recità n’Ave Maria.
L’anima tua da sola spicca er volo
e se solleva, come pe’ magìa.
Ormai so’ vecchio, er tempo m’è volato;
da un pezzo s’è addormita la vecchietta,
ma quer consijo nun l’ho mai scordato.
Come me sento veramente solo,
io prego la Madonna benedetta
e l’anima da sola pija er volo!

Trilussa. Pseudonimo anagrammatico di Carlo Alberto Salustri (1871-1950). Nei suoi sonetti coglie il contrasto fra le apparenze e la verità della vita, creando figure e macchiette con spirito caustico e divertito, talora venato da momenti di malinconia crepuscolare. 

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L’ultima poesia è opera di… un bambino! Non è dato di conoscerne il nome ma la purezza cristallina dell’ispirazione rivela l’appartenenza generazionale.
Questi versi c’invitano a meditare sull’affascinante rapporto fra la poesia e il mondo dell’infanzia. Ci sono bambini che riescono a tradurre le loro emozioni in parole dotate di vitalità poetica. E non c’è nessun maestro ad insegnarlo. Perché la poesia non è, e non può essere, materia d’insegnamento. La poesia è un momento magico in cui i pensieri dentro di noi prendono forma di parole, rivelando la loro natura più autentica. Un esperimento dell’anima dove i bambini diventano un po’ adulti e gli adulti tornano un po’ bambini.

OH MADONNINA

(Preghiera anonima di un bambino)

Oh Madonnina
dall’azzurro manto,
sorridi e ascolta
il piccolo mio canto.
Con le tue bianche mani benedici
i buoni e i tristi
che non son felici.
Proteggi il babbo, la mamma
e casa mia
Oh dolce Pia
Oh Vergine Maria.


Massimo Nardi

08 dicembre 2021 Indietro

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